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IBRA"Il mio calcio libero arriva dal ghetto"

di Raffaella Bon

Zlatan Ibrahimovic, metà ballerino e metà gangster: esagerata come etichetta?«Signore mio, sono nato a Malmoe in un quartiere che tutti chiamavano “il ghetto”. Già questo dovrebbe rendere l’idea. Se hai talento, bene. A volte, però, non basta. Se invece lotti e sgomiti e alzi la voce, a volte può bastare. Ho un brutto carattere? Non lo so. C’è chi non lo ha, il carattere».

Dia un titolo al suo modo di giocare a calcio.
«Il mio calcio libero».

In che senso?«Fedele al progetto del mister, renitente alle mode, ai cataloghi, alle gabbie. Un calcio dove io sono io e ognuno è se stesso. Il calcio che praticavo nei cortili e nelle strade. Selvaggio, profumato di mistero».

Un metro e novantadue: si sente più numero nove o più numero dieci?
«Uno e novantaquattro, prego. Diciamo che mi sento un po’ l’uno e un po’ l’altro. Il gol, per il sottoscritto, è stato tutto da piccolo ed è diventato molto da grande. Magari, di solito, un ragazzo fa il percorso inverso. A me è capitato così. Gli assist di Atene, a Mancini e Adriano, mi hanno reso pazzo di gioia».

Ajax, Juventus, Inter. Cinque scudetti consecutivi. E quanti Ibrahimovic?
«Arrivai ad Amsterdam che avevo vent’anni. Grande scuola, l’Ajax. Schema base, il 4-3-3. Ai lati, Van der Meyde e Mido; dietro, Van der Vaart, oggi al Real. Co Adriaanse e Ronald Koeman, gli allenatori, mi insegnarono ad allargare il raggio di azione. Tenessi d’occhio pure la porta, sì: ma anche quello che c’era attorno».

Fabio Capello, Roberto Mancini, José Mourinho: sia sincero.
«Detto che gli scazzi in un ambiente di lavoro fanno parte del lavoro stesso - fra compagni o fra tecnico e giocatori: scelga lei - Capello mi ha accolto alla Juve. Ricordo gli allenamenti. Mi faceva marcare dal suo vice, Italo Galbiati. Noi due in area, davanti a Buffon. Tira, Ibra, tira. Ogni giorno, ogni settimana, ogni mese: da tutte le posizioni».

Mancini?«Capello privilegiava il 4-4-2. Proprio come Roberto. Il Mancio non voleva che mi legassi a un ruolo, a una fetta di campo. Forse, si rivedeva in me».

Mourinho è appena arrivato.
«Appunto. E quindi, meglio aspettarlo al varco».

A naso?
«Con lui sono tornato al 4-3-3. Ciò premesso, mi sembra il più completo. Non che gli altri non curassero i dettagli, per carità, ma lui ha un modo tutto suo che lo fa sembrare speciale sul serio. Adora la tattica senza esserne schiavo. E per conquistarci, non ha mai rimpicciolito il lavoro di chi c’era prima. Particolare che abbiamo molto gradito».

Che Inter sta nascendo?
«Una squadra capace di essere protagonista su tutti i fronti. Abbiamo già portato a casa un trofeo (Supercoppa di Lega). Ne mancano tre».

Nell’ordine?
«Champions, scudetto, Coppa Italia».

Dicono di lei: che bravo, quand’è bravo. Peccato che in Nazionale e nelle partite più calde...«Al tempo. Cominciamo dalla Nazionale. Noi svedesi saremo sì e no nove milioni, e i miracoli non sono di questo mondo. Agli ultimi Europei, comunque, ho fatto due gol con un ginocchio solo».

E l’Inter di Champions, allora?«Prenda l’edizione 2007-2008. Cinque gol nella fase a girone e poi lo choc Liverpool. Con uno in meno ad Anfield (espulso Materazzi) e uno in meno a San Siro (Burdisso). Non cerco alibi: cerco, semplicemente, serenità di giudizio».

Cosa prova a essere il giocatore più pagato in Italia e uno dei più pagati al mondo?«Ci tiene proprio a saperlo? Un beneamato tubo. È la legge della domanda e dell’offerta. Io penso a giocare, al resto provvede il mio agente. Il 3 ottobre compio 27 anni, ho allungato il contratto con l’Inter fino al 2013. Ora che siamo più completi e più maturi, credo proprio che ci toglieremo un sacco di soddisfazioni».

A Torino, col Toro, segnò un gol formidabile, alla Van Basten: di controbalzo, da posizione quasi impossibile.«Ricordo, come no. Ma il gol più bello resta quello che firmai nell’ultima partita con l’Ajax. Avversario, il Nac Breda. Dribblai mezza squadra».

I modelli?
«Chi ha poca fantasia si aggrappa al “solito” Van Basten. Magari. Scherzi a parte: da Maradona in giù, molti».

Il rapporto con gli arbitri?
«Dalla Juve all’Inter, sempre uguale. Se ogni tanto do di fuori - ma converrà: meno che in passato - è perché a volte si lasciano condizionare dal mio fisico. Sono grande e grosso, e dunque nel dubbio mi danno contro. Come se i nanetti fossero tutti angeli. Col cavolo».

Pesi il nostro campionato.
«Se sia davvero il più bello, non lo so né mi interessa. Di sicuro, è il più completo e il più complicato».

La ricetta italiana anti-violenza vista da uno straniero.
«Stadi chiusi, semichiusi, né chiusi né aperti. Non ci ho capito nulla. Se le rispondo che li vorrei sempre e tutti pieni, mi espongo al banale. Il problema è serio, ma la soluzione non mi convince».

Il Pallone d’oro?
«Ci penso sempre, tranne che di notte. Di notte, con il suo permesso, dormo».

Crede in Ronaldinho?
«Non si tratta di credere o no in Ronaldinho. È lui che deve crederci».

Quando legge uno striscione con scritto «zingaro» o la fischiano, come reagisce?
«Poveri illusi, se immaginano di smontarmi. Al contrario, mi caricano. Adoro il clima da corrida. Fermo restando che non si può filare sempre al massimo».

Il ginocchio sinistro?
«Non ancora al cento per cento, ma decisamente meglio che a fine stagione. Stavo proprio male, ad aprile».

La sua griglia scudetto?«Noi, la Juve, il Milan, poi Roma e Fiorentina».

La Juve: il cuore sanguina.
«Capitolo chiuso. Ma è stato splendido».