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La metamorfosi di Marcello, l'eroe nazional impopolare

di Marina Beccuti
Fonte: www.lastampa.it

ROBERTO BECCANTINI

L’avversario non basta più. Ci vuole il nemico. Aiuta, ciclicamente, a cementare il gruppo e allontanarlo dal gregge dei postulanti. Diego Maradona, scampato ai gufi di Montevideo, è andato sul classico: i giornalisti, vil razza dannata. Frasi hard, verbi e gerundi a luci rossissime. Marcello Lippi no, ci ha sorvolato, ci ha ignorato: ha puntato dritto sul pubblico. La minoranza rumorosa del Tardini. Senza scivolare sulle bucce del facile moralismo: chi paga il biglietto, ha diritto al dissenso e, più in generale, la libertà di opinione è sacra; nello stesso tempo, chi si sente preso di mira da coloro che pagano il biglietto ha pure lui il diritto di dissentire dai dissenzienti. Ci mancherebbe. In base, però, alla carica che ricopre: e, di conseguenza, non adeguando o abbassando il lessico, ma alzando i contenuti. Maradona era sotto stress perché si giocava tutto in una notte; Lippi, viceversa, era «sopra stress», visti i meriti acquisiti, la missione fresca di successo e il tipo di impegno, non proprio patibolare.

Se è un diritto sventrare la formazione e ruotare undici titolari su undici, perché non dovrebbe esserlo invocare Cassano o criticare lo zelo degli azzurri, a lungo in balìa dei marziani ciprioti? La parziale marcia indietro diffusa attraverso il sito federale conferma come al ct fosse scappata la frizione. Ha difeso la squadra a moccoli unificati, incassando la solidarietà di molti colleghi (non tutti). Per farlo, ha scelto un invito-ordine («Ci vadano loro, a lavorare») che nemmeno la straordinaria conquista di un Mondiale può avallare e giustificare. Dall’epopea bearzottiana del 1982, non c’è commissario che non aneli all’impopolarità nazionale, e non cerchi l’isolamento da una parte e lo scontro frontale dall’altra. Porta bene. Lippi ha buona memoria - gli dicemmo di tutto, allo scoppio di Calciopoli e prima di volare in Germania - ma a Parma ha esagerato. Diventare «santi dopo» esenta da molte code, e riduce drasticamente la burocrazia impiegatizia e «spiegatizia» (su Cassano e dintorni, per esempio): a patto, però, di non spararle (troppo) grosse.

E la Federazione? Avevamo un chirurgo distratto (Franco Carraro), oggi il presidente è il suo anestesista, Giancarlo Abete. Trapela il solito imbarazzo, l’immancabile sconcerto: e per lo sfogo e per la notizia che al ritorno dal Sud Africa Lippi toglierà il disturbo, come aveva fatto dopo il trionfo di Berlino, imitato da Francesco Totti, dettaglio che a Roma dimenticano spesso. Ecco, ci voleva un genio per scoprire che Marcello, allenatore fra i più preparati e vincenti, avrebbe cambiato nuovamente indirizzo? Eppure Abete era così sicuro e felice di aver rimosso Roberto Donadoni e recuperato Lippi: aveva il nome, aveva, soprattutto, l’alibi.

Non v’è nulla di elegante, in questa storia: specialmente se l’approdo sarà il solito (la Juventus, dalla Triade «al» Triade: Blanc). Per carità, gli italiani non hanno concluso una guerra che è una al fianco degli alleati con i quali l’avevano cominciata, e dunque figuriamoci se ci si può scandalizzare per il fiele di Parma trasformato in miele, o per i cori anti-Juventus, ma detto ciò, se la voce del popolo non sempre è la voce di Dio, sarebbe opportuno che Lippi ce lo ricordasse come farebbe Abete: le critiche sono la camomilla della vita.


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