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Torino, il (ri)lancio

di Matteo Maero

Il calcio è fatto di episodi, numeri, statistiche che da quasi 108 anni non appartengono al colore della passione che contraddistingue i deboli di cuore, ovvero quella straordinaria sofferenza che è il Toro. La stagione 2013/2014 è finita con la migliore delle aspettative: perdere l’Europa con un rigore; ma non quel rigore di cui siamo abituati, calciato sul palo o nell’alto dei cieli. Un rigore neutralizzato dal povero Rosati, sbattuto in panchina a Sassuolo dopo la prodezza di Cerci alla prima giornata e improvvisamente abile a respingere quello che poteva essere il tiro della vita dopo quasi vent’anni, alcuni di questi passati a vedere giocare Pellicori e il più scarso degli Zanetti, Paolo. Piangersi addosso è un arte che già coltiviamo da tempo: eppure il sorrisone di Ventura mi aveva quasi illuso. In tre anni è riuscito a creare una realtà convincente, a dare un bel gioco e soprattutto a far sembrare Vives il Pirlo di Torre Annunziata. Malgrado le soddisfazioni, ciò che rattrista al termine di quest’anno, è l’idea di cosa è il Toro, o meglio, di cosa è diventato. Il gemello biondo è pronto a spiccare il volo in quel di Dortmund (a lui i migliori auguri), l’altro di Velletri non sa neanche lui che fare e lo stratosferico Darmian è corteggiato più che Belen Rodriguez in costume da bagno. Da terra di promesse, a terra di rivalsa. Il mondo Toro è diventato per tutti un’opportunità: chi viene dall’anno sbagliato sa che a Torino c’è Ventura pronto a trasformare tutto nell’anno giusto: Bovo, Moretti, Padelli, “giovani inespressi” come El Kaddouri e Kurtic sono esempi lampanti di un Toro che è diventato il posto giusto per riprendere credibilità e speranza. Resta quel barlume di speranza che è l’altissimo Maksimovic. Entrato in sordina e vera sorpresa di un Petrachi che pian pianino piazza colpi interessanti ma non esagerati, è la vera grande scommessa vinta che dovrebbe spingere la dirigenza a cercare più Maksimovic possibili. La programmazione, se è avvenuta come pare, è passata anche da Moreno Longo, che con la sua Primavera ha tirato su giovani davvero interessanti, ma che urge non abbandonare sulla via di Damasco. Il Toro deve guardare i suoi giovani, ma soprattutto deve essere motivo di orgoglio. Perché se la maglia granata rimane solo un trampolino di (ri)lancio, ogni anno saremmo qui a piangere la partenza dell’Immobile di turno, senza quell’attaccamento alla maglia che nel calcio dei petroldollari, sembra sparita inesorabilmente nel buio più profondo.

Questo articolo è stato scritto da Stefano Gurlino, collaboratore di Radio Granata


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