Carlo Nesti: “Parigi: cosa ci insegna il terrore da stadio”
Tante volte, forse anche troppe volte, abbiamo commentato gli incidenti, all’interno o all’esterno di uno stadio, dicendo: “Sono fatti, che non c’entrano con lo sport”.
In quelle circostanze, però, emergeva quasi sempre come i responsabili, più o meno direttamente, trovassero ospitalità nel bacino del tifo estremo.
A Parigi, invece, un nemico, proveniente da tutt’altro scenario, per colpire la convivenza democratica, voleva stabilire il suo primato dell’orrore proprio in uno stadio.
Lo stadio, quale massimo luogo di aggregazione popolare e di amplificazione mediatica, “cattedrale” di quella immensa “fede laica”, che è la passione per lo sport.
Venerdì scorso, Stade de France, alle 21,17, 21,20 e 21,53: le esplosioni, causate da chi cercava la strage e la mattanza, come altrove in città, ma in diretta televisiva.
Se la follia non si fosse fermata nei pressi di Rue Jules Rimet, l’uomo che inventò i Mondiali di calcio, avrebbe trovato sfogo in un teatro da 80 mila posti.
Quella sera, il passato era nel ricordo dell’Heysel, durante Belgio-Italia, e il futuro nelle gambe di chi, in Francia-Germania, pensava a Euro 2016, proprio in Francia.
Il tragico presente, invece, era affine ai morti delle Olimpiadi di Monaco 1972, o a quelli della Maratona di Boston 2013: il terrorismo, che si serve dello sport.
La stragrande maggioranza di noi, sportivi, vuole che gli stadi restino un luogo di festa, e si sente lontana anni luce da tanto orrore.
Una cosa è il tifo estremo, e altra cosa è il terrorismo, ma, attenzione: abbiamo già sperimentato, atrocemente, come anche il tifo estremo, tradotto in teppismo, possa uccidere.
Quindi alle prese con lo sport, non dimentichiamo mai il senso di responsabilità, perché lo stadio sia un contenitore di sincera passione, e non di schiacciante paura.
(“EDITORIALE” PER RADIO SPORTIVA)
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