Gianni Bui: "Graziani e Pulici li ho cresciuti io. Il calcio non mi entusiasma più"
"È lui, è lui, è Gianni Bui" cantavano i tifosi in suo onore, come ricorda il collega Gaetano Mocciaro. Intervenuto ai microfoni di TMW, Gianni Bui, attaccante del Toro tra 1970 e 1974 (fece inoltre parte della rosa vincitrice della Coppa Italia '70/71), ha parlato della propria passione per la pittura, passando poi per "il viale dei ricordi", ed esplorando infine, in breve, la propria opinione sul calcio contemporaneo:
"La pittura? Sono un autodidatta. Non ho mai studiato arte, ma mi son sempre divertito sin da piccolo a disegnare. Pensi, anche quando facevo il calciatore mi dilettavo con i colori. Si giocava a carte nei ritiri, ma a un certo punto mi stancavo e iniziavo a disegnare sui quaderni dei bambini. Ora ho 81 anni e il tempo libero non mi manca, per cui posso anche passare delle giornate o delle settimane con i pennelli. Mi hanno offerto delle mostre a Verona e Torino. Porto i quadri e mi diverto. E riesco anche a venderli. Ma non è una questione di denaro, la mia. A quest'età, lo faccio solo perché mi piace. Amo l'astratto e lavoro con l'acrilico. L'olio no, perché ha un odore sgradevole, e in casa può dare fastidio.
Quando dipingo, seguo il mio istinto. Certo, qualche paesaggio a volte me lo chiedono, ma non sono cose che mi attirano molto, e se devo proprio dipingerlo allora lo faccio a modo mio, diverso, diciamo non classico. Mi piace vedere qualcosa di nuovo, avere una prospettiva diversa delle cose. Con i ritratti è lo stesso: li faccio, in modo magari anche contorto, ma sicuramente unico. Picasso o Monet? Se si nomina Picasso, non posso che mettermi sull'attenti. Lui era uno che faceva quel che sentiva. Sono tanti in verità i pittori da cui prendo ispirazione compro un libro, vedo un quadro che cattura la mia attenzione e prendo ispirazione. Diciamo che amo coloro che mi fanno vedere cose particolari.
Innanzitutto mi sento legato alla Lazio, perché mi ha permesso di fare il calciatore. Da ragazzino facevo il tipografo, mi hanno scoperto in un campetto, e da lì è partita la mia storia. Devo ringraziare certamente Fulvio Bernardini, che poi mi ha voluto con sé a Bologna, a fare la riserva di Nielsen. Di Verona, poi, ho grandissimi ricordi. Ho conosciuto un grande uomo e un grande allenatore come Nils Liedholm. Su di lui potrei star delle ore a parlare. Mi hanno voluto tanto bene, ho segnato tanto, in una stagione sono arrivato a quota 15. Poi, qualche anno dopo ha fatto meglio un ragazzo di Pavullo nel Frignano, che è vicino al mio paese, Serramazzoni: mi riferisco a Luca Toni. Evidentemente l'aria di quelle parti aiuta, se vuoi fare il centravanti.
A Torino ero già un giocatore esperto e posso dire in un certo senso di aver cresciuto Ciccio Graziani e Paolo Pulici. A Graziani, in particolar modo, insegnavo a colpire di testa. Al Milan, purtroppo non è andata come avrei voluto. Sono arrivato a 35 anni, mi feci male quasi subito, e già avevo subito diversi interventi. Certamente è stato un rimpianto. Poi ho lavorato per la Federazione, da osservatore, e mi piaceva. Per come lavoravamo ho capito che avremmo potuto fare molto meglio come Italia. Ora è passato del tempo, e il calcio è cambiato troppo. E non mi entusiasma più".