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“Guantoni Granata. I portieri che hanno scritto la storia del Toro”

di Elena Rossin
Fonte: Recensione di Elena Rossin del libro
La copertina del libro

Da Olivieri a Bacigalupo, Da Vieri a Castellini, da Marchegiani a Sereni sono 106 i portieri che in 117 anni si sono susseguiti a difendere la porta del Toro e ne hanno scritto la storia. Qualcuno fra i pali ci è andato una sola volta, Biano, Tallia I, Gabutti, Pallavicino, Castalldi, Vincenzi, Garella, Boccafogli, Zaninelli, Piazza, Nista, Marchetti, Castellazzi e Rosati,  qualcun alto molte volte, Vieri 275, Castellini 201, Terraneo 193, Bosia 189, Bucci 161, Maina 151, Marchegiani 146, Sirigu 141, Bacigalupo II 137, Rigamonti 111, Padelli 100, Sereni 98 e Sorrentino 93. C’è chi ha vinto scudetti  e Coppe Italia e chi è retrocesso o ha riportato in Torino in Serie A, ma tutti sono presenti e raccontati con dovizia di particolari e aneddoti nel nuovo libro scritto dai giornalisti Francesco Bramardo e Gino Strippoli “Guantoni Granata. I portieri che hanno scritto la storia del Toro” edito da Priuli & Verlucca.

Valerio Bacigalupo il portiere degli Invincibili. Dal punto di vista atletico era un gatto con un’eccellente elevazione che gli permetteva di arrivare sui traversoni e tiri alti nonostante fosse alto solo un metro e settantasei centimetri. Ha vinto tutto quello che si poteva vincere all’epoca, ha stabilito record su record, ha parato di tutto e di più, il simbolo con quel Torino dell’Italia che stava trovando una propria identità e dignità all’uscita dalla guerra. Era un vero artista della parata, molto concreto ma contemporaneamente efficace, fisicamente potente ma anche agile e spregiudicato. Bacigalupo era un portiere che non regalava spettacolo: i tuffi, utili solo per strappare applausi, li lasciava ad altri. Le sue doti? Il carattere, la concentrazione, una presa di ferro e una grande abilità nelle uscite, ma soprattutto un grande colpo d’occhio nel capire dove poteva finire il pallone ancor prima che fosse calciato dall’avversario turno. Il suo senso della posizione lo aveva fatto diventare un para-rigori unico. Un aneddoto della sua storia ci regala un ritratto genuino e scherzoso di “Baciga”. Si racconta che un giorno, sulla spiaggia di Vado Ligure, suo fratello Manlio mentre giocavano con la palla gli tirò un rigore. Valerio era poco più che un bambino, il pallone scagliato lo prese in pieno e cade a terra come tramortito. Manlio gli si avvicinò subito spaventato, mani fra i capelli e sguardo verso il fratello … e in quel momento Valerio aprì gli occhi e con sguardo beffardo e sorridente gli disse: “Hai visto, ho parato il tiro e ti ho fatto spaventare. Ti ho fregato due volte!”.

Luciano Castellini “Giaguaro” le mani sullo scudetto. Dotato di un eccezionale colpo di reni, Castellini si mette subito in evidenza, tanto che parecchi club gli fanno si fanno sotto per acquistarlo. Uno di questi era Lazio, che aveva di fatto già messo le mani sul portiere grazie ad un impegno scritto fin dal novembre 1969 tra il Monza e la società capitolina. La trattativa con la Lazio va a rilento per alcuni problemi societari ed il direttore del Torino, Beppe Bonetto, ne approfitta ed in meno di mezz’ora, con un viaggio lampo a Monza, conclude l’affare nell’estate del 1970. Solo giocatori in cambio, ben tre: il portiere Pinotti, l’attaccante Mondonico e il prestito di Facchinello. Quando arriva al Torino dal Monza, Castellini ha già 25 anni, tanti per essere ancora ai più sconosciuto, pochi per i tifosi granata che hanno ancora negli occhi le gesta del “kamikaze” Lido Vieri. Castellini non ha alternative, deve rimboccarsi le maniche e conquistare la fiducia del tecnico e dei tifosi domenica dopo domenica. Rispetto ai colleghi del tempo ha grandi doti fisiche, è di statura elevata, ha coraggio nelle uscite e compie balzi da “giaguaro” appunto, da un palo all’altro per togliere palloni altrimenti indirizzati sotto l’incrocio dei pali. Difficilmente compie errori determinanti. Ha il senso del piazzamento tra i pali e grande coraggio nelle uscite sia basse che alte, quando sui cross in area si eleva sopra una selva di teste di avversari e difensori fino ad abbrancare la sfera, bloccandola. Sentimenti III, che durante il periodo di Giagnoni era di fatto il preparatore dei giocatori, affermava che non aveva mai visto lavorare un portiere dotato come Castellini, che rispetto a Lido Vieri aveva una maggior linearità di movimenti e più coraggio, anche se Lido non aveva mai fatto difetto di coraggio, anzi. “Per me - ricorda Castellini in una intervista del 1972 - sia la vigilia che la sera stessa della partita le vivevo come una sorta di piccolo dramma. “Quasi non riuscivo a dormire. Non era nervosismo, o meglio non era solo quello. Era che mi rendevo conto degli sforzi che facevano i miei compagni durante le partite, del lavoro di Giagnoni durante la settimana e della sua tensione in panchina, comprendevo le ansie del presidente, dei dirigenti e di tutti i tifosi. Quindi pensavo che quando ero fra i pali non rischiavo di far brutta figura solo io, ma anche di poter far danni ai compagni alla società. Di tutto questo ho sempre tenuto conto”.

Luca Marchegiani “Il conte” il re di coppe. Venerdì 11 giugno 1993, vigilia della finale di andata di Coppa Italia contro la Roma. L’allenamento di rifinitura in programma nel primo pomeriggio, a seguire il ritiro nell’hotel a pochi chilometri dallo stadio Delle Alpi dove l’indomani, davanti a 45 mila tifosi granata, scenderà in scena Torino-Roma. Luca Marchegiani non è sereno, ha un segreto che riuscirà a nascondere, da professionista qual e, disputando due finali da protagonista. Prima di recarsi all’allenamento Luca, di buonora, imbocca la salita e le curve della strada che porta al volle di Superga. Non è solo, c’è con lui il suo preparatore, Lido Vieri, un’altra icona per i tifosi granata, il portiere saracinesca che ha voluto a tutti i costi Marchegiani al Torino. Davanti alla lapide del Grande Torino, i due rimangono a lungo in silenzio. Marchegiani è commosso, saluta gli eroi scomparsi e chiede un occhio di riguardo per la doppia sfida che il Toro andrà ad affrontare. Per marchigiani quella di sabato 12 giugno 1993 sarà l’ultima partita davanti al suo pubblico con la maglia del Torino. Il ragazzo di Jesi trattiene a stento le lacrime: sa già di essere stato ceduto. Dieci giorni prima il portiere si è recato in sede, in corso Vittorio Emanuele. Dal suo procuratore gli sono giunte voci di cessione, lui non vuole lasciare il Toro, neppure per la Lazio, neppure per la capitale dove Sergio Cragnotti sta allestendo uno squadrone, in panchina un ex portiere, suo estimatore, Dino Zoff. Il segretario Gigi Pavarese e Luciano Moggi lo convinceranno ad accettare il trasferimento. C’è bisogno di liquidità, la società sta andando a gambe all’aria, Moggi di lì a poco toglierà le tende. Marchigiani viene sacrificato per 7 miliardi di lire, l’anno prima è toccato a Lentini (18,5 miliardi di lire al Milan) oltre a Benedetti, Cravero, Policano, Martín Vázquez. Il 12 giugno Marchegiani scende in campo con un peso in più sullo stomaco, oltre alla responsabilità per nulla leggera di una seconda occasione per vincere per il Toro qualcosa di importante dopo la doppia finale UEFA sfumata contro l’Ajax l’anno prima, pur senza sconfitta.

Questo e tanto altro in un libro che non si riesce a smettere di leggere fino a quando non si è arrivati all’ultima parola.