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Progetto seconde squadre, ambizioso ma nessuno lo ha seguito. E Agnelli ha colto il punto

di M. V.

Quando si è paventata l'ipotesi delle seconde squadre, molti presidenti, tra cui quello del Torino, si sono resi disponibili ad appoggiarlo, anche con entusiasmo, salvo poi tirarsi indietro e lasciando la sola Juventus a portarlo avanti. Qualcuno penserà che il fatto che bianconeri arrivino sempre a metà classifica se non peggio dimostri l'inutilità di quello che potremmo considerare un ulteriore strumento di crescita del vivaio, ma non è così. Un progetto quadriennale che ha già portato ad esordire in prima squadra, anche con permanenza, giocatori come Frabotta, Miretti e Fagioli, con il primo che non ha avuto fortuna, ma con gli altri due che invece si stanno imponendo. E non sempre parliamo di giocatori esplosi ma acquistati per la Primavera, nel caso di Miretti parliamo di un elemento cresciuto nel vivaio sin da bambino.

Che piaccia o meno ogni club ha una sua identità, storicamente ben precisa e consolidata, figuriamoci se non ce l'ha il Torino. E qui interviene il presidente bianconero Andrea Agnelli, che sottolinea come uno step successivo alle giovanili, dunque nel professionismo, permetta di inculcare maggiormente la giusta identità del club di appartenenza al giovane calciatore che si appresta a diventare uomo. E che c'entra questo con il Torino? Anche se molti tifosi ormai attribuiscono la fine delle storiche identità sportive ai rispettivi club, questo non è del tutto vero, anche in un calcio che si è radicalmente trasformato negli ultimi decenni. Vedere il Toro giocare oggi, persino a livello Primavera, da questo punto di vista fa un po' cadere le braccia, specialmente in certe partite (non crediamo sia necessario sottolineare quali). 

Non si nota alcuna differenza rispetto ad altre compagini, soprattutto non si notano differenze nell'affrontare un derby o una gara contro un'altra qualsiasi squadra di vertice. Il mordere le gambe, il gettare il cuore oltre all'ostacolo, l'alzare la determinazione oltre il limite immaginabile è sparito completamente. E non è che in passato il Toro fosse stato spesso più forte della Juventus, anzi, ma fino agli anni '80 il bilancio delle stracittadine sorrideva ai colori granata. Provate a guardarlo oggi, anche solo nel disastro dell'ultimo ventennio. Attribuire questo processo al cambiamento del calcio può reggere ma solo fino ad un certo punto. Come si può pretendere, ad esempio, che una squadra che nell'ultimo derby ha schierato l'unico italiano a venti minuti dalla fine possa capire che cosa sia un derby.

Non una critica all'orientamento multietnico del calcio, ma solo il fatto che chi è arrivato dall'estero non in giovane età ad indossare questa maglia e magari a giocare nel calcio italiano, probabilmente non ha neppure la minima idea di cosa significhi ancora per molti tifosi del Toro. Ecco, quello delle seconde squadre potrebbe essere lo step mancante per integrare nuovamente certi valori quantomeno agli elementi futuribili, che possano, per i pochi che riusciranno ad imporsi partendo dai primi calci, ricordare cosa significa giocare nel Torino (necessità che andrebbe assecondata anche in chi dovrebbe prepararli, come nel caso di Antonino Asta), invece di svincolarli troppo rapidamente per poi trovarseli spesso contro in Serie A. Ancora si attende una tanto decantata, ovviamente a parole, ma mai realizzata possibilità di vedere una maglia granata nella Serie C italiana. E' chiedere troppo?