Razzismo sugli spalti, ennesimo (triste) capitolo. L'assurda lettera a Lukaku
Dopo il supplemento d'indagine, richiesto dal Giudice Sportivo, su fischi e ululati riservati a Romelu Lukaku, neo-centravanti di casa Inter, nel corso della gara disputata dai neroazzurri a Cagliari domenica scorsa, giunge un nuovo capitolo relativo alle tesi apologetiche, concepite e diffuse dagli stessi gruppuscoli di "tifosi" che, lungo tutta la Penisola, danno luogo, a ogni stagione calcistica, a spettacoli, in primis di se stessi, ai limiti del grottesco. Ai Confini della Realtà, il titolo dell'adattamento della nota serie sci-fi/distopica "The Twilight Zone", ideata a fine Anni '50 da Rod Serling (il "nonno" del contemporaneo "Black Mirror", per intenderci), e riportata ora in vita, per l'ennesimo reboot, da Jordan Peele. Un titolo, in ogni caso, che ben si adatterebbe, a proposito, anche alle affermazioni del caso.
Avvalendoci del riassunto della vicenda, riportato sulle pagine dell'edizione milanese del Corriere della Sera, trasaliamo di fronte alle tesi che il gruppuscolo (l'enfasi sul tratto linguistico diminutivo-peggiorativo è quanto mai d'obbligo) di suddetti tifosi interisti ha sottoposto, tramite una lettera pubblica (presentata come "Comunicato della Curva Nord), allo stesso Lukaku: nella missiva, si "prega" la punta belga, di origine congolese, di non badare troppo ai boati, onomatopeizzati nell'iconico "buu", a lui rivolti durante le gare, basati sul timore degli avversari rispetto ai gol che potrebbe siglare, non alla sua etnia, né al colore della pelle. E, soprattutto, a mo' di velata (velata?) minaccia, si invita Lukaku a evitare di denunciare pubblicamente questo genere di episodi, in quanto, cita l'autorevole testata meneghina, "Quando dichiari che il razzismo è un problema che va combattuto in Italia, non fai altro che incentivare la repressione di tutti i tifosi". Insomma, prenditi i tuoi fischi a testa bassa, e ricorda che allo stadio comanda chi sbraita più forte. Anzi, chi bercia in modo più selvaggio.
Si fanno però sentire, bontà loro, le voci della ragionevolezza. In testa, riassume il Corriere, quella di uno dei volti più noti del giornalismo nostrano, Enrico Mentana: "Come ogni tifoso interista che ama i valori dello sport, mi vergogno di condividere la mia passione con loro". Gli fa eco l'attore Enrico Bertolino, notoriamente grande supporter neroazzurro: "Il razzismo non è un gioco. Avrei apprezzato di più dalla Nord una lettera dedicata a Giacinto Facchetti, visto che oggi è il 13esimo anniversario della morte". Tirata in ballo la gloria calcistica ed ex-dirigente interista, scomparso nel 2006, la testata riporta poi, a chiosa, l'opinione in merito del figlio, Gianfelice Facchetti, oggi apprezzato attore teatrale: "Purtroppo sono cose già viste e sentite dalla Curva. Se si vuole far innervosire gli avversari si fischia, non si fanno ululati. Bisogna fare in modo che negli stadi regni la civiltà. Se a teatro recito con un attore di colore, nessuno fa ululati. Allo stadio, chi lo fa, se non è razzista, è quanto meno un grande maleducato e un grande ignorante. E come si fa a non definire razzismo l'atto di ululare contro una persona di colore?".
Voci che danno un po' di sollievo, in contrapposizione alle assurdità, da bollare come tali senza se e senza ma, di chi vuole farsi apologeta del razzismo. Un razzismo malamente velato, e subdolo in quanto permeato del tentativo di ribaltare le logiche della civiltà contemporanea, che, tra tutte le idiosincrasie del caso, ha saputo far proprio, almeno sulla carta, il principio illuminista di libertà e uguaglianza per ogni essere umano, proclamato come indirizzo universalmente valido dall'ONU, il 10 dicembre del 1948, all'alba della rinascita del mondo intero, dopo le aberrazioni della Seconda Guerra Mondiale, e delle orrende idee che l'hanno generata, nell'Articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo: "Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali, in dignità e diritti. [...]". Il diritto, di Romelu Lukaku, come quello di chiunque non abbia visibilità né opportunità di esprimersi pubblicamente, di non essere irriso e offeso per la propria etnia, per il colore della propria pelle, e, per estensione, della propria appartenenza culturale, religiosa, sessuale, e della propria condizione biologico-esistenziale. La dignità nel poter svolgere il proprio mestiere, e nel perseguire la propria passione, semplicemente come pari rispetto a chiunque altro. E guai a sottovalutare il valore simbolico degli ululati e dei "buu" di turno.